perchè questo blog?

L'Italia è diventata da anni paese di immigrazione ma da qualche tempo si registra un crescere di fenomeni di razzismo. Dopo la morte di Abdul, ucciso a Milano il 14 settembre 2008, ho deciso che oltre al mio blog personale avrei provato a tenere traccia di tutti quei fenomeni di razzismo che appaiono sulla stampa nazionale. Spero che presto questo blog diventi inutile...


martedì 20 ottobre 2009

Il dormitorio su una striscia d’asfalto

Milano, un sabato d’inizio ottobre, clima tiepido che spinge le persone a uscire di casa. Più che altro per fare shopping. Corso Buenos Aires è pieno di traffico: lungo il canalone che porta dal centro alla periferia scorre un flusso continuo di auto e di persone, attirate dalle vetrine con la merce in saldo.

Verso sera molti tornano a casa. Alcuni – pochi – vanno verso piazza Oberdan, più per prendere il tram o la metropolitana che per assistere alla quinta Notte bianca della solidarietà. In questa striscia di asfalto pedonale nel centro della città vivono e dormono da più di sei mesi alcuni rifugiati politici provenienti dal Corno d’Africa, in particolare dall’Eritrea.

Cercano così di attirare l’attenzione su una situazione ai limiti del tollerabile. E per questo subiscono intimidazioni e ritorsioni da parte del comune, della polizia e della questura (che ha anche cercato di fargli revocare, senza riuscirci, lo status di rifugiati). Queste persone, tra cui ci sono anche donne e bambini, sono state allontanate a fine aprile da uno stabile abbandonato a Bruzzano, alle porte di Milano. Costrette a lasciare il loro alloggio, obiettivamente fatiscente ma comunque necessario, rivendicano il loro diritto a un’esistenza dignitosa. E per farlo usano la loro presenza fisica in un luogo ben visibile della città.

Paulos, uno dei portavoce dell’iniziativa, mi dice: “Ora siamo in quaranta, ma all’inizio eravamo più di trecento”. Molti hanno trovato rifugio negli edifici vuoti e inutilizzati che costellano Milano. Altri immigrati sono riusciti a “scappare” dall’Italia. Ma i rifugiati non hanno questa possibilità: se non vogliono infrangere la legge sono costretti a rimanere qui. “E qui stiamo morendo”, afferma Paulos.

L’unica alternativa offerta dal comune di Milano è il dormitorio pubblico. “Le famiglie sono separate, i maschi vengono divisi dalle femmine”, continua, “e siamo costretti a entrare alle otto di sera e a uscire alle sette di mattina”. Questa non è una casa. È solo una toppa troppo piccola per il buco da coprire, e li costringe a passare l’intera giornata per strada.

Il comune indifferente
Così, loro in strada preferiscono starci sempre, per manifestare pacificamente contro un’amministrazione comunale cieca, insensibile, avida e avara, non molto diversa dai cittadini che l’hanno eletta. Un’amministrazione comunale che infrange le convenzioni di Ginevra e non investe i finanziamenti che ha ricevuto dall’Unione europea per affrontare il problema dei rifugiati.

Questi soldi non arrivano ai diretti destinatari, che non ricevono quello che gli spetta secondo le leggi internazionali: innanzitutto un alloggio, ma anche corsi di formazione e di lingua, oltre ai ticket per mangiare e per accedere ai trasporti pubblici. “Come dice un proverbio cinese: ‘Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita’”, conclude Paulos. Poi torna in mezzo alla piazza tra i banchetti delle informazioni. Tra poco cominciano la cena e il concerto.

Io, però, devo andare. Per spostarmi prendo la bici, non l’autobus. Il comune di Milano, poco tempo fa, ne aveva inaugurato un nuovo modello, con le sbarre ai finestrini. In questi autobus gli immigrati sprovvisti di documenti venivano caricati ed “esposti” per ore prima di essere trasportati alla centrale dei vigili urbani per gli accertamenti. Moderne galere a cielo aperto, sono stati “dismessi”, solo dopo aver provocato lo sdegno di molte persone (ma l’approvazione di altre). Per dimostrare che Milano non è una città razzista, e che i diritti – anche semplicemente i diritti umani – sono uguali per tutti. Gabriella Kuruvilla

fonte: Internazionale

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