Al netto di ogni possibile e ovvia speculazione sulle guarentigie della certezza della pena, la morte di Sami M.S. avvenuta due giorni fa in seguito ad uno sciopero della fame prolungato da oltre un mese e mezzo, non fa che riaprire l’annoso dilemma fra diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione dell’individuo.
Può una persona, ed in questo caso la legge non fa differenza fra liberi cittadini e detenuti, lasciarsi volontariamente morire per vedere rispettato il proprio diritto di scegliere?
Sami, cittadino quarantaduenne di nazionalità tunisina stava scontando, nel carcere Torre del Gallo di Pavia, l’ultimo dei sette anni e quattro mesi di reclusione in seguito ad una condanna per spaccio di sostanze stupefacenti. Una riduzione della pena a tre anni e mezzo, ottenuta grazie all’indulto e ad altri benefici per la liberazione anticipata, avrebbe permesso al nordafricano di lasciare la sua cella già dagli inizi del dicembre prossimo. Questa è, in breve, la storia di Sami fino allo scorso luglio quando una misura cautelare ordinata dalla magistratura lo ha condannato ad altri otto anni e mezzo per violenza sessuale. Un capo d’accusa nei confronti del quale l’uomo si è sempre dichiarato innocente fino al punto di iniziare a rifiutare acqua e cibo per ben cinquantuno giorni. “Non ha sofferto il pensiero di dover stare ancora altri otto anni e mezzo in carcere. – ha dichiarato al telefono Aldo Egidi, legale di Sami - Mi ha detto che rifiutava l’idea di smettere di fare lo sciopero della fame e di non voler più parlare con nessuno, né con me, né con i familiari, né con la convivente”.
Nella notte tra venerdì e sabato scorso l’ultima crisi causata delle gravi condizioni di salute in cui ormai versava Sami, ha costretto le autorità carcerarie a ordinare il trasferimento nella clinica di Chiurgia toracica di Pavia. Qui, l’uomo è arrivato dopo numerosi spostamenti susseguitisi dopo la sua uscita dal penitenziario dove era detenuto. Dopo il primo attacco sopraggiunto lo scorso 2 settembre mentre l’uomo si trovava all’interno della sua cella i dirigenti della prigione hanno richiesto l’immediato trasferimento nel Pronto Soccorso del policlinico San Matteo dove i dottori hanno constatato che l’unica possibilità per salvare la vita dell’uomo sarebbe stata quella di sottoporlo ad un trattamento sanitario obbligatorio (TSO). Per attivare la procedura i sanitari avrebbero dovuto precedentemente diagnosticare una patologia mentale. Dalle corsie d’emergenza il paziente era stato dunque successivamente spostato nel reparto di Psichiatria per il parere degli esperti.
La legge 833/1978, che regola fra l’altro il TSO in casi di malattia mentale, prescrive – art. 34 - che tale misura possa essere adottata in condizioni di ricovero ospedaliero ma solo ove venga rilevata la contemporanea presenza di tre condizioni. “Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale – recita la legge – può prevedere che le cure vengano prestate in condizione di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”.
Il che vuol dire che dopo il ricovero in ospedale Sami, che da un mese e mezzo non accettava cibo e acqua né cure di alcun genere, prima condizione, e per la salvezza del quale non erano più sufficienti cure extraospedaliere, seconda condizione, avrebbe potuto essere curato forzatamente solo dopo una prognosi che avrebbe accertato “alterazioni psichiche”. Era quello l’ultimo passaggio per salvare la vita di un detenuto che non voleva essere salvato se non da quella che lui diceva essere la verità.
Dalla Psichiatria non verrà emesso nessun referto. L’uomo, ormai in condizioni disperate, sarebbe deceduto dopo poche ore nella clinica di chirurgia toracica in seguito a gravi complicazioni che hanno coinvolto il funzionamento degli organi interni, ormai troppo deboli a causa del prolungato digiuno.
Se la pronuncia degli psichiatri fosse arrivata prima della morte di Sami probabilmente l’Italia in questo momento parlerebbe del detenuto a cui non è stato permesso di decidere. Probabilmente si affronterebbero nuovi sterili dibattiti sulle limitazioni alla libertà di compiere qualsiasi gesto che attenga esclusivamente alla sfera dell’arbitrio personale. L’impressione è che la vacatio legis su casi come quello del tunisino sia stata ancora una volta oscurata da una morte che non lascerà codazzi di polemiche. Una morte non poi così importante da convincere il Legislatore a trovare una soluzione normativa tra il diritto alla vita, che le autorità devono rispettare e far rispettare, e quello alla libera manifestazione del pensiero che un individuo, del tutto sano di mente, decide di esercitare.
E se il nodo gordiano è davvero ancora difficile da sciogliere, la strada da percorrere dovrebbe essere quella di una riabilitazione del condannato che passi attraverso un attento e scrupoloso dialogo per caire i suoi problemi e curare i suoi drammi quotidiani.
“In ogni caso come questo, che non è il primo – ha dichiarato Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone per la difesa dei diritti dei detenuti – la questione che si pone è del tutto etica e non si risolve solo cercando di capire se bisognava curare il detenuto con la forza. La vera domanda è se c’e stata una reale presa in considerazione del problema personale del detenuto. La violenza sessuale è punita non solo dalle autorità col carcere ma anche dagli stessi detenuti per mezzo di minacce e maltrattamenti verso colui che è accusato di tale reato. Mi chiedo, mantenendomi del tutto cauto sul caso in esame, se siano stati fatti ragionamenti del genere. Se le autorità siano state vicine all’uomo”.
fonte: Peacereporter
venerdì 11 settembre 2009
Lasciarsi morire in carcere
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