Monia, mamma e moglie tunisina di 37 anni, il 21 settembre 2005 stava entrando nel palazzo di Giustizia di Cremona per seguire il processo che vedeva imputato suo marito, l’imam Mourad Trabelsi, di terrorismo. Portava il burqa, che come noto copre il volto e il corpo, ma quando la fermarono per chiederle di identificarsi, scoprì il viso consegnando contemporaneamente il documento di identità.
Non bastò. Perché "in luogo pubblico e senza un giustificato motivo indossava un velo che ne rendeva difficile il riconoscimento da parte delle forze dell'ordine". Nonostante il “giustificato motivo” per una donna musulmana sia l’appartenenza alla sua fede, e nonostante non abbia fatto alcuna difficoltà a rendere semplice il riconoscimento, Monia Mzoughi si è ritrovata rinviata a giudizio.
Oggi, dopo tre anni, il giudice Pierpaolo Beluzzi dello stesso tribunale di Cremona l’ha assolta “perché il fatto non sussiste”, ma lei si dice preoccupata per la crescita serena dei suoi figli. “Mi vedono sul giornale come se avessi commesso chissà quale crimine” dice, sebbene “non mi sia mai sottratta all’identificazione”. Ma la questione non era e non è l’identificazione, evidentemente. Le è stata contestata la violazione dell’articolo 5 della legge del ’75 sulle “Disposizioni in materia di ordine pubblico”.
E nel corso degli anni tra il rinvio a giudizio e la sentenza di oggi, l’allora ministro Amato aveva varato nel giugno 2007, la “Carta dei valori, della cittadinanza, e dell’integrazione”. Un testo che sembrerebbe un editto sulla libertà. La nostra Costituzione è citata ad ogni stormir di fronde come la carta fondamentale per la tutela dei diritti e dell’uguaglianza delle persone di qualunque razza, genere, cultura e religione, e nel capitolo sulla “Laicità e la libertà religiosa”, il punto 26 proclama “In Italia non si pongono restrizioni all’abbigliamento della persona purché liberamente scelto e non lesivo della sua dignità”, per culminare poi in “Non sono accettabili forme di vestiario che coprono il volto perché ciò impedisce il riconoscimento della persona e la ostacola nell’entrare in rapporto con gli altri”.
L’ipocrisia è la cifra con la quale l’Italia traballa tra una cultura con la quale si confronta con il metro etnocentrico e la questione sicurezza, incapace di affrontarla davvero ma solo di brandirla come un’arma nei confronti del “diverso da noi”. Uno strumento di difesa, di chiusura, dove la propria identità fa da linea di demarcazione; non uno strumento a tutela della sicurezza, poiché processare una donna che si è immediatamente identificata è semplicemente un atto di discriminazione.
Per fortuna la sentenza le ha reso giustizia: "Non si ravvisa la condotta lesiva al precetto dell'imputata - si legge - La nordafricana (sic, ndr) alla prima richiesta della polizia alzò infatti il velo scoprendo il volto ed esibì un documento di riconoscimento, la carta d'identità, consentendo in modo agevole all'ufficiale di pubblica sicurezza di procedere alla sua identificazione".
Assoluzione piena, pronunciata oggi, nel giorno in cui la Commissione europea per la giustizia vara l’accordo quadro contro il razzismo e la xenofobia, con pene da 1 a 3 anni. Ci sono voluti sette anni per giungere a questa legge, e ora i governi hanno due anni per inserirla nei loro ordinamenti. Da noi, tra divieto del velo e ddl sicurezza, vediamo di non farne ancora un problema di ordine pubblico.
fonte: Dazebao.org
domenica 30 novembre 2008
Portava il burka, processata e assolta
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