Una città smarrita, frantumata, incattivita. Cadono i miti in questa Milano con poco orgoglio e molte paure. Era la città dell’accoglienza. Oggi si discute di apartheid in metrò. Soffia un vento di intolleranza: e a volte il Duomo sembra un fortino assediato. Tempo fa sventolava uno striscione della Lega: «Vescovo di Kabul». C’è chi esagera, anche con le minacce. Il cardinale Dionigi Tettamanzi considera gli immigrati una risorsa e parla a una città che ha perso un po’ della sua anima. «La diversità è sempre un problema — dice — ma noi dobbiamo avere la vista lunga dei profeti, preparare il domani. L’integrazione è più avanti di quel che si pensi: basta imparare dal mondo dei ragazzi, recuperare un po’ della loro saggezza». C’è una paura che nasce dall’egoismo, dall’assenza di visione. «Alla Milano di oggi manca la consapevolezza del suo ruolo, della sua responsabilità verso i propri abitanti e il Paese, della sua vocazione europea». Non c’è futuro senza solidarietà, gli ha scritto una giovane studentessa. La lettera è diventata il titolo del suo ultimo libro. Con la crisi bisogna ritessere tessuti sociali sfilacciati, riscoprire la sobrietà, lavorare per una convivenza più umana. «Dobbiamo assumerci tutti le nostre responsabilità — spiega — chi non lo fa non è solo inutile, è anche dannoso». La notte di Natale ha messo a disposizione dei nuovi poveri e di chi ha perso il posto qualcosa di suo e poi ha detto: ai poveri le case dei preti. Certi immobili del clero sono troppo grandi, possono essere usati da chi ha più bisogno. È il concetto del buon samaritano. Si sono perse queste pratiche solidali nella città di Milano? «No. La solidarietà non si è persa a Milano. Ne ho prove concrete. Il Fondo Famiglia-Lavoro ha raccolto in poco più di quattro mesi 4,3 milioni di euro tra la gente. E al tempo stesso nelle parrocchie sono state donate ingenti quantità di denaro per i terremotati d’Abruzzo, in Quaresima dalle mille comunità della Diocesi sono scaturiti senza clamore altrettanti rivoli di solidarietà che hanno dissetato i bisogni di tanti poveri assistiti dai missionari ».
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Questa forma di solitudine genera in sequenza paura, chiusura, rifiuto dell’altro, specie se portatore di una diversità. Come purtroppo accade verso gli immigrati».
Trova una maggior difficoltà nella borghesia di oggi a donare un po’ del superfluo per chi ha bisogno?
«Da sempre l’esercizio della carità — un esercizio discreto, silenzioso, evangelico — è patrimonio per tante famiglie di ogni estrazione sociale. È un modo per essere responsabili verso la società. Piuttosto mi domando se esista ancora la borghesia della Milano dei decenni scorsi...».
Dov’è Milano e dove sono i milanesi è una domanda ricorrente in questi giorni. Qual è la Milano che si vede dalla stanza del cardinale?
«Milano è una città che sfugge alle semplificazioni immediate e chiede tempo e perspicacia per essere conosciuta e amata. Io vedo una Milano generosa nell’aiutare ma talora diffidente ad aprirsi e a intrecciare legami di conoscenza e arricchimento reciproco, specie se l’altro è portatore di qualche diversità. Vedo anche una città piena di energia, di creatività, di risorse, con la fatica però a fare sistema, a dare piena espressione alle proprie potenzialità attraverso progetti concreti e condivisi di grande respiro e di corale coinvolgimento. L’Expo rappresenta, in questo senso, una grande chance».
Tra polemiche e ritardi, la partenza però non è stata incoraggiante. Bisognerebbe spiegare a Milano cos’è Milano, riunire le tante radici positive in un disegno comune...
«Ci sono oggi tante città impenetrabili: la città della fiera, la città della moda, della finanza, di un gruppo etnico, le periferie, il centro storico... Ma solo una città che ritrova l’ambizione della propria identità civica — pensata come sintesi viva delle sue tante originalità — può tornare a fare appassionare al bene comune e a suscitare il desiderio di una partecipazione responsabile. Una città così ritiene dovere fondamentale garantire un’abitazione decorosa ai suoi abitanti, si preoccupa di tutelare tutti e in modo particolare i deboli. Se invece si alimentano le contrapposizioni questa identità non si realizza, l’atteggiamento della corresponsabilità decresce e scompare, ad alcune categorie di persone non vengono riconosciuti tutti i diritti».
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Come dovrebbe essere la politica dell’accoglienza nella legalità?
«Occorre intervenire per regolare doverosamente il fenomeno migratorio, garantendo la legalità, attivandosi di concerto con le altre nazioni e le istituzioni sovranazionali, sempre nel rispetto dell’inviolabile dignità di ogni persona. Una dignità spesso umiliata nei paesi d’origine degli immigrati: non possiamo dimenticare da quali condizioni fuggono coloro che bussano alle nostre porte. La politica deve muoversi — ma qui le lacune sono evidenti — sul piano della progettazione, per immaginare e realizzare modelli di convivenza e di integrazione, aggregando tutte quelle forze sociali, culturali, educative, istituzionali che ne hanno competenza. Chiesa compresa».
fonte: Corriere della Sera
mercoledì 20 maggio 2009
Tettamanzi, l’Expo e la solidarietà: «Milano smarrita, torni capitale morale»
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